Se penso a Cronache marziane, penso ad una lunga poesia che mi ha incantata fin dalle primissime righe: episodi sparsi, tenuti insieme da un unico filo conduttore, ovvero il mito di Marte, scritti con un linguaggio estremamente aulico, ricco di immagini suggestive, che spesso quasi commuovono. Marte è il pianeta rosso per eccellenza, ma in questi racconti si fa riferimento a vari colori, tra cui il bruno, il dorato, l’azzurro agata. Ed è per questo che guardando questa foto che ho scattato dalla finestra di casa mia, sogno il pianeta immaginato da Bradbury, che sicuramente non corrisponde alla realtà.
Non sarà facile scrivere questa recensione, ci sono così tante cose de dire che mi servirebbe lo spazio di un saggio accademico, e soprattutto vi toglierei il gusto della sorpresa che mi ha colto ad ogni pagina.
Ho letto questo libro nella nuova edizione Mondadori del 2020, tradotta meravigliosamente da Veronica Raimo, con una puntualissima postfazione di Tristan Garcia, che in una manciata di pagine riesce a racchiudere l’essenza di questo viaggio interplanetario. Ma soprattutto in questa edizione è presente un’introduzione di Bradbury stesso che, pur non volendolo ostentare, non può far altro che mostrare il fascino e la simpatia che sicuramente caratterizzavano la sua persona. E così ci racconta che un grande scrittore visionario come Aldous Huxley lo aveva definito “poeta” ed aveva pienamente ragione, perché in queste Cronache marziane si respira poesia a pieni polmoni, e ad ogni pagina mi sentivo sempre più innamorata: di Marte, della civiltà marziana, dell’atmosfera magica del pianeta, di Ylla (il mio cuore si è spezzato insieme al suo e non ho nemmeno avuto la forza di piangere, ma solo voglia di rannicchiarmi con lo sguardo fisso nel vuoto), mi sono innamorata dell’idea del capitano Nathaniel York, dell’integrità e dell’intensa spiritualità di Spender (che tanto mi ha fatto soffrire), della genialità crudele di Stendahl che mi ha lasciata sgomenta e piena di orrore.
Bradbury era uomo di immensa cultura e in quest’opera cita persino dei famosissimi versi di una poesia di Ben Jonson (non lo si dice nelle note, quindi se non li riconoscete nel testo, chiedete a me ;-), fa più volte riferimento a Lord Byron, e a maestri quali Edgar Allan Poe, Lewis Carrol e Lovecraft. E se Ray Bradbury resta Ray Bradbury, non poteva mancare un episodio in cui si paventa, e ovviamente si condanna, una futura ed ipotetica censura (o peggio ancora distruzione) dei libri, soprattutto di quelli con soggetti fantasiosi, assolutamente distanti dalla realtà.
Questo libro mi ha riempito il cuore. Mi ha commossa, mi ha fatto riflettere, mi ha emozionata e spaventata.
Ma attenzione: non è un libro di fantascienza. È lo stesso Bradbury a precisarlo nell’introduzione. Cronache marziane parla di mito puro, di quei miti che ci facevano rimanere a bocca aperta e sognare per ore ed ore quando eravamo bambini.
Anche se l’autore non lo considerava un libro di fantascienza, una domanda mi sorge spontanea: Philip K. Dick l’aveva letto prima di scrivere il suo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Secondo me la risposta è sì…
Il mio consiglio? Lo sapete già: LEGGETELO e abbandonatevi totalmente a fantasticare sulla culla o sul futuro, o su entrambi, chissà, dell’umanità.
Au revoir, mes amis! ;-)
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